Coltivazione dei cereali a Cortina d'Ampezzo
L’AVENA
L’avena è una pianta che può crescere anche in terreni magri, in luoghi freddi e molto piovosi e riesce a maturare nonostante cresca molto lentamente. Quanto veniva coltivata bisognava mieterla almeno una settimana prima che le piante fossero mature altrimenti si perdeva la maggior parte dei semi e i gambi non contenevano più sostanze nutritive per il bestiame. L’avena raccolta veniva battuta col correggiato per separare i gambi dai semi; la buccia di questi ultimi è spessa e ricca di fibra e oggigiorno si utilizza per svariate cose come nylon, carta, cartone, un tipo di gomma e una sostanza che distrugge le muffe.
L’ORZO
L’orzo invernato si seminava in ottobre-novembre, mentre quello a crescita rapida si poteva seminare in primavera. Quando in autunno i gambi si seccavano, le spighe si caricavano e il ciuffo sopra di esse si piegava significava che era giunto il tempo di mietere; il colore di un campo di orzo maturo diventa di un giallo pallido. Anche l’orzo si batteva con un correggiato per separare i semi dalla pianta. L’orzo si usa in molti modi: intero per fare minestre, macinato per fare il pane, tostato per fare il caffè, si fa germogliare per produrre il malto e con questo si realizzano birra e whisky.
LA SEGALE
La segale è una pianta che ha molte radici e per questo sopporta la siccità meglio di quanto non riescano a fare frumento, orzo e avena. Ha bisogno di un terreno sabbioso, ma non soffre il freddo e per questo motivo cresceva bene anche in posti come Cortina. La segale è una pianta da invernare, doveva essere cioè seminata verso la metà di settembre; quando l’estate stava finendo, quando la spiga era matura, era ora di mietere. Prima di battere e macinare era opportuno verificare che le spighe fossero sane e cariche di semi in quanto la pianta rischiava di essere intaccata da un fungo che se arrivato fino all’uomo poteva avere esiti anche nefasti. La paglia della segale è la migliore per fare i tetti: il gambo è fitto, duro ma sottile e lungo fino a due metri; l’amido invece è una delle materie più utilizzate per fare la colla. Inoltre se c’è bisogno di buoni pascoli per il bestiame in primavera la segale seminata in autunno è quella che rende di più perché è quella che cresce più fitta.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Tratto dal libro "Animali, campi, lavori"
Metà '900 circa - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Archivio Storico Print House Teresa Lacedelli, ronco, mietitura dell'orzo
Vivere DAL territorio
Lavorazione dello speck a Cortina d'Ampezzo
L’unico sistema per conservare la carne senza farla ghiacciare è quello di metterla sotto sale, aspettare che espella l’acqua, asciugarla e affumicarla. Ogni paese aveva il suo metodo per fare questo lavoro. Qui in Ampezzo oltre al sale si aggiungevano anche pepe, aglio, bacche di ginepro, erbe aromatiche e altro; quello che si otteneva prendeva il nome di còncia.
Ogni casa aveva la sua e ognuno era convinto di aver trovato l’ingrediente segreto per la còncia migliore… Bisognava macellare gli animali gli ultimi giorni di luna calante perché altrimenti la carne rilasciava troppa acqua; i tagli di carne, dopo averli riempiti di còncia, venivano messi in un mastello di legno con un buco sul fondo chiuso da un tappo con manico lungo. Tra i pezzi di carne si mettevano dei rami di ginepro per tenerli divisi e venivano girati, cambiandoli di posto, una volta al giorno. L’acqua rilasciata dalla carne e mescolata con la còncia prende il nome di salamoia; quest’ultima veniva tolta quotidianamente aprendo l’apertura sul fondo e, dopo aver nuovamente richiuso il recipiente di legno, veniva posta sopra la carne.
Se la carne era grassa doveva rimanere nel mastello per almeno una settimana, altrimenti se magra bastavano pochi giorni. Una volta tolti i pezzi di carne dal contenitore venivano asciugati appendendoli con dei ganci ad una sbarra collocata in un locale fresco e arieggiato. Asciugata completamente la carne si passava all’affumicatura; il fumo, se fatto con rami di ginepro, oltre a dare alla carne un buon sapore teneva lontane anche le mosche. Per affumicare lo speck era necessario un locale chiuso e costruito in modo da poter mettere sul pavimento della brace senza che questa lo incendi. Bastavano poche ore di fumo per ottenere il prodotto completo.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Tratto dal libro "Animali, campi, lavori"
Metà '900 circa - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Vivere DAL territorio
Farine e pane
Alimento principale dell’alimentazione nella valle ampezzana era il pane che fino alla fine dell’Ottocento era fatto in casa ogni dieci-quindici giorni. Si impastava la farina con il lievito di birra e si lasciava lievitare tutta la notte. I pani lievitati venivano cotti nella stufa e poi riposti su una rastrelliera di legno. Veniva utilizzata farina di segala, fava e frumento anche se quest’ultima con parsimonia; se c’era la necessità di conservare il pane questo veniva messo a seccare. Il pane secco si spaccava a pezzettini e si metteva a bagno nel latte o nella minestra per ammorbidirlo e poterlo così mangiare.
Alla recita dei rosari in casa del defunto era consuetudine donare ai partecipanti del pane bianco fatto con frumento e comino. Con la farina, oltre al pane, si preparavano anche dei gnocchetti detti peštariéi (un impasto abbastanza consistente di farina, acqua e sale che veniva sminuzzato finemente) che venivano poi bolliti nel latte diluito o cotti in un soffritto di cipolla, farina e burro allungato. Per le occasioni speciali invece, come matrimoni o battesimi, venivano preparati i carafói, ovvero dei crostoli, e il brazolà, una focaccia a forma di ciambella che veniva donata ad ogni invitato a nozze con i carafói posti nel mezzo. In altre festività venivano consumate le fartàies, una pastella fatta con uova, latte e farina bianca fritta nell’olio. La particolare forma della frittella era ottenuta facendo scendere lentamente la pastella da un imbuto mosso in cerchi concentrici sulla padella.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Tratto dal libro "Orjo, faa e lin" - Regole d'Ampezzo
Metà '900 circa - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Vivere DAL territorio
Preparazione dei latticini
IL FORMAGGIO
Per ottenere il formaggio si riscaldava il latte in un paiolo ad una temperatura di 36° circa, dopodiché si lo si toglieva dal fuoco e si aggiungeva il caglio; il latte si rapprendeva in un’ora e mezza. La cagliata ottenuta veniva messa sul fuoco, mescolata e frantumata con una frusta. Quando il formaggio era pronto veniva tolto dal fuoco nuovamente e si comprimeva con le mani la massa cagliata, tagliandola in pezzi uguali con un filo. Ogni pezzo veniva poi avvolto in un canovaccio, compresso in una forma di legno e messo a scolare su di un piano inclinato.
Il formaggio inoltre si distingueva in: formaggio grasso, formaggio mezzo grasso e formaggio magro a seconda che fosse ottenuto dal latte intero, parzialmente scremato o scremato.
LA RICOTTA
Il caglio toglie dal latte la caseina che è la proteina del latte e la maggior parte del grasso, ma il lattosio rimane. Questo portato alla temperatura di 80° e con l’aggiunta di aceto e sale fa ottenere la ricotta. Il liquido che rimaneva dopo quest’ultima operazione veniva dato ai maiali.
IL BURRO – IL BURRO COTTO
Per fare il burro bisognava scremare il latte togliendo la panna e mettendolo nella zangola. Ce ne erano di due tipi: la più antica di forma tronco-conica con doghe in legno e mestatoio, mentre l’altra era una cassa di legno con una piccola ruota a pale azionata da una manovella esterna. La panna veniva sbattuta con un movimento verticale nel primo caso o girando la manovella nel secondo fino ad ottenere il burro. Questo veniva poi messo in stampi intagliati per ottenere dei pani decorati e per conservarlo durante tutto l’anno lo si cuoceva e versava in vasi di pietra.
Per ottenere il burro cotto si metteva il burro in una pentola e si mescolava finché non si era sciolto. Man mano che bolliva il burro diventava giallo e limpido come l’olio, mentre le particelle di residuo si separavano. Questo tipo di burro veniva usato per friggere o condire in quanto più leggero e digeribile.
IL ZIGAR
Si ricavava dal latticello del burro che veniva portato ad ebollizione e poi filtrato con un telo a trama rada fino a che non rimaneva una massa compatta pronta per essere lavorata. Questa veniva divisa in palle fatte rotolare sul tavolo per ottenere la forma di un cono e poi messe a asciugare sulla cappa della cucina.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Tratto dal libro "Da ra monte a ra stala" - Regole d'Ampezzo
Metà '900 circa - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Vivere DAL territorio
Lino - coltivazione in Ampezzo
Il lino veniva seminato in maggio nei campi più riparati perché il vento non piegasse le piantine; quando era cresciuto venivano sradicate per prime le piante maschio che maturavano prima ed erano senza semi, mentre venivano lasciate sul campo quelle con il seme in modo che maturassero. La raccolta avveniva i primi di settembre. Per ottenere la gramolatura gli steli di lino venivano posti a macerare in un terreno umido e, grazie all’azione del sole e dell’acqua, la parte legnosa esterna si rompeva liberando la fibra. Si procedeva poi con l'essiccazione nel forno; ogni villaggio di Cortina aveva almeno un forno che veniva utilizzato in quell’occasione contemporaneamente da tutte le famiglie. I mannelli di lino venivano riposti in piedi uno accanto all’altro e l’apertura del forno veniva sigillata per far sì che il caldo non si disperdesse. Per cuocere il lino occorreva tutta la notte.
Per cardare il lino bisognava prima sfilacciare gli steli facendo strisciare ogni mazzetto tra le assi della gramola; scartata la corteccia si otteneva un altro mazzetto di colore grigio. Il lino veniva pettinato più volte su pettini con denti sempre più fitti fino ad avere un fascio di fili di buona qualità e di color argento che poi veniva attorcigliato in una treccia. Lo scarto veniva diviso in stoppa di buona qualità e stoppa scadente. Procedimento simile veniva impiegato per la lavorazione della canapa.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Tratto dai libri "Animali, campi, lavori" e "Orjo, faa e lin"
Metà '900 circa - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Vivere DAL territorio
La falciatura a Cortina d'Ampezzo
Un tempo si capiva che era tempo di falciare quando l’erba era alta e prima che i fiori facessero il seme. Quanto si falciava a mano, dato che la falce taglia i gambi, bisognava farlo al mattino presto prima che si asciugasse la rugiada poiché l’erba è più morbida e facile da tagliare. Ogni tanto bisognava fermarsi, prendere la cote dal fodero e affilare la lama della falce che lavorando perde il filo. L’erba ammucchiata andava sparsa aiutandosi con una forca, in questo modo si formava uno strato sottile e regolare che poteva asciugarsi con l’azione del sole. Al contrario, se si usavano le falciatrici, l’erba non veniva tagliata ma tranciata e quindi il lavoro andava fatto più tardi quando la rugiada era asciutta.
Quanto l’erba era secca in superficie veniva girata per farla seccare anche dall’altra parte, poi si rastrellava formando le andane, righe di fieno lunghe tutto il prato. Se veniva brutto tempo prima che l’erba fosse secca era possibile intervenire per salvare il fieno. L’erba falciata veniva messa su un paletto piantato nel terreno e munito di stecche orizzontali, pettinando l’erba in superficie affinché la pioggia scorresse senza bagnare lo strato sottostante. Col fieno quasi secco venivano fatti dei mucchi grandi, con una sommità ben pettinata per lo scolo dell’acqua piovana in modo che non penetrasse negli strati sottostanti. Il tutto veniva poi steso al sole al ritorno del bel tempo e dopodiché portato definitivamente nel fienile.
Per la raccolta del fieno si usavano dei teli; questi erano tessuti con la fibra grezza della canapa e del lino e avevano una forma quadrata e una fettuccia ad ogni angolo per poterli legare una volta riempiti di fieno. Venivano poi accatastati sul carro e trainati nel fienile. Nella valle d’Ampezzo si riusciva a falciare due volte: il primo taglio, detto fieno, è composto per la maggior parte da graminacee ed è quindi energetico e adatto alla produzione della carne, mentre il secondo taglio prende il nome di “outiguoi” ed è composto per la maggior parte da leguminose perciò proteico e adatto alla produzione del latte. In prati particolarmente fertili si potrebbe sfalciare una terza volta: in questo caso il taglio prende il nome di “poc”.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Tratto dai libri "Animali, campi, lavori" e "Orjo, faa e lin"
Metà '900 circa - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Vivere DAL territorio
Apicoltura in Ampezzo
Nella conca ampezzana si è praticato con successo l’apicoltura fino agli inizi degli anni ottanta. Venivano impiegate api carniche che, rispetto a quelle italiane, avevano un aspetto più rotondeggiante, ma producevano in percentuale meno miele.
Curiosità: per preservare le api da possibili malattie venne creata una Società, composta da tutti gli apicoltori locali, che garantiva l’acquisto degli sciami solo tra coltivatori della valle e non dall’esterno. Così facendo si rese l’apicoltura a Cortina immune da malattie fino al 1979 quando la società venne definitivamente sciolta. Ogni membro aveva un numero identificativo per la propria produzione che permetteva di riconoscere la provenienza dei prodotti messi in vendita; i barattoli contenenti il miele erano rivestiti di carta paraffinata e sotto ognuno veniva impresso il numero associato all’apicoltore. Il più grande in Ampezzo, colui che possedeva il maggior numero di api, collocate a Fiammes e Ospitale, era Marino Apollonio, numero identificativo 7 per il suo miele.
Museo Etnografico Regole d'Ampezzo
Gioia de Bigontina (da intervista a Paola Apollonio) - Musei Regole
Foto del 1945 - testi mostra temporanea invernale 2021-22
Vivere DAL territorio
Cultura come investimento - Intervista a: Ada Zambelli
Con lo scopo di preservare la testimonianza storica come bene immateriale del museo, ma anche della comunità ampezzana e regoliera, sono state realizzate una serie di interviste a persone che hanno dato un contributo fondamentale all'interno delle Regole d'Ampezzo.
Organizzazione e conduzione interviste: Giacomo Pompanin, per il gruppo di lavoro del Museo etnografico Regole d’Ampezzo<br /><br />Video: Manaz Productions
Museo etnografico Regole d'Ampezzo
Cultura come investimento - Intervista a: Evaldo Constantini
Con lo scopo di preservare la testimonianza storica come bene immateriale del museo, ma anche della comunità ampezzana e regoliera, sono state realizzate una serie di interviste a persone che hanno dato un contributo fondamentale all'interno delle Regole d'Ampezzo.
Organizzazione e conduzione interviste: Giacomo Pompanin, per il gruppo di lavoro del Museo etnografico Regole d’Ampezzo<br /><br />Video: Manaz Productions
Museo etnografico Regole d'Ampezzo
Cultura come investimento - Intervista a: Giorgio Degasper
Con lo scopo di preservare la testimonianza storica come bene immateriale del museo, ma anche della comunità ampezzana e regoliera, sono state realizzate una serie di interviste a persone che hanno dato un contributo fondamentale all'interno delle Regole d'Ampezzo.
Organizzazione e conduzione interviste: Giacomo Pompanin, per il gruppo di lavoro del Museo etnografico Regole d’Ampezzo<br /><br />Video: Manaz Productions
Museo etnografico Regole d'Ampezzo