Scarpeth e scufons
Dublin Core
Titolo
Scarpeth e scufons
Descrizione
Quali erano le calzature che le nostre nonni e nonne calzavano per attraversare i passi e percorrere i sentieri di montagna carichi di fieno o foglie e le vie e contrade di paesi lontani dove andavano a vendere gli utensili prodotti durante i lunghi inverni? E alle volte le stesse calcature prodotte in casa.
L’uso delle scarpe era molto limitato, costituiva un lusso ed era usato solo nelle grandi occasioni, prima di tutte quella delle nozze e delle festività religiose più importanti.
La calzatura più usata era quella di stoffa, gli scarpetti, pazientemente realizzati dalle donne che in una realtà povera e contadina quale era quella friulana, rappresentavano la volontà di non sperare nulla. Gli anziani rammentano ancora oggi i rimproveri che ricevevano da bambini quando pioveva e osavano portarli, e il dover camminare scalzi nascondendoli sotto il braccio per non rovinarli; così come li toglievano quando dovevano allontanarsi dal proprio paese per calzarli nuovamente solo nei pressi di un altro centro abitato.
Queste calzature basse e senza tacco erano costituite da una tomaia di velluto o frustagno, nero o marrone, quelli per la festa erano generalmente di velluto nero, di migliore qualità e abbelliti da ricami floreali o da una coccarda, mentre quelli del lavoro erano prevalentemente di frustagno , disadorni e spesso venivano rinforzati con una suola in gomma ottenuta da vecchi cartoni di biciclette o moto.
A seconda della zona potevano avere la punta piatta, arrotondata o ancora rivolta in alto, con una scollatura tondeggiante più o meno ampia a volte fornita di pie, cioè di apice rivolto all’indietro. Il materiale per la suola veniva riciclato da abiti logori o stoffe di casa ormai inservibili tagliati a rettangoli e soprapposti uno sul’altro che poi venivano fittamente trapuntati a mano con lo spago. Era questa l’operazione più lunga e faticosa che le donne, con forbici e tenaglia sempre legate attorno alla vita, eseguivano mentre si recavano a lavorare in montagna con la gerla carica sulle spalle, o la sera riunite in stalla per il filò. Tomaia e suola venivano poi unite manualmente tra loro con una striscia di stoffa. Nelle scarpette per i bambini si aggiungevano una cinghietta e un bottone in modo da poterli tenere ben saldi al piede.
Inizialmente confezionati per uso personale sono, nel tempo, diventate merce di scambio nel commercio ambulante e dalla cucina domestico sono nati piccoli lavoratori artigianali che hanno ampliato la loro produzione e diversificato materiali e tempi (a Claut c’è ancora un laboratorio artigianale che produce gli scarpeth)
L’uso delle scarpe era molto limitato, costituiva un lusso ed era usato solo nelle grandi occasioni, prima di tutte quella delle nozze e delle festività religiose più importanti.
La calzatura più usata era quella di stoffa, gli scarpetti, pazientemente realizzati dalle donne che in una realtà povera e contadina quale era quella friulana, rappresentavano la volontà di non sperare nulla. Gli anziani rammentano ancora oggi i rimproveri che ricevevano da bambini quando pioveva e osavano portarli, e il dover camminare scalzi nascondendoli sotto il braccio per non rovinarli; così come li toglievano quando dovevano allontanarsi dal proprio paese per calzarli nuovamente solo nei pressi di un altro centro abitato.
Queste calzature basse e senza tacco erano costituite da una tomaia di velluto o frustagno, nero o marrone, quelli per la festa erano generalmente di velluto nero, di migliore qualità e abbelliti da ricami floreali o da una coccarda, mentre quelli del lavoro erano prevalentemente di frustagno , disadorni e spesso venivano rinforzati con una suola in gomma ottenuta da vecchi cartoni di biciclette o moto.
A seconda della zona potevano avere la punta piatta, arrotondata o ancora rivolta in alto, con una scollatura tondeggiante più o meno ampia a volte fornita di pie, cioè di apice rivolto all’indietro. Il materiale per la suola veniva riciclato da abiti logori o stoffe di casa ormai inservibili tagliati a rettangoli e soprapposti uno sul’altro che poi venivano fittamente trapuntati a mano con lo spago. Era questa l’operazione più lunga e faticosa che le donne, con forbici e tenaglia sempre legate attorno alla vita, eseguivano mentre si recavano a lavorare in montagna con la gerla carica sulle spalle, o la sera riunite in stalla per il filò. Tomaia e suola venivano poi unite manualmente tra loro con una striscia di stoffa. Nelle scarpette per i bambini si aggiungevano una cinghietta e un bottone in modo da poterli tenere ben saldi al piede.
Inizialmente confezionati per uso personale sono, nel tempo, diventate merce di scambio nel commercio ambulante e dalla cucina domestico sono nati piccoli lavoratori artigianali che hanno ampliato la loro produzione e diversificato materiali e tempi (a Claut c’è ancora un laboratorio artigianale che produce gli scarpeth)
Autore
Associazione "Intorn al Larin"
Fonte
Museo Casa Clautana
Data
..../1980
Collezione
Citazione
Rita Bressa, “Scarpeth e scufons,” Patrimonio - Museo Dolom.it, accessed November 16, 2024, https://patrimonio.museodolom.it/items/show/4669.