Sedonere
Dublin Core
Titolo
Sedonere
Soggetto
Audiolettura del racconto 'Sedonere' di Gianluigi Dall'Ava
Descrizione
Stava finendo il lungo inverno, l'inverno bianco e silenzioso. L'inverno freddo e sonnolento del paese di Claut, tra le montagne boschive della Valcellina. Era una sonnolenza, quella invernale, solo apparente. Mentre dormivano gli alberi ricoperti dalle abbondanti nevicate di quel tempo, mentre dormivano i pochi terreni adatti alla coltivazione degli orti, il paese continuava a vivere nascosto tra le consuete attività delle scuole e delle case, dei bar numerosi e di poche altre pubbliche faccende. Al caldo delle stufe molti uomini continuavano il loro lavoro, chi modellando forchette e cucchiai di legno, chi tornendo tazze e calici, mentre le donne tra un occhio alla cucina ed un altro ai figli più piccoli, puntavano con grossi spilloni gli scarpeth, le tipiche scarpine di stoffa grezza della zona dolomitica.
Era un periodo strano quello, dalle città cominciavano lentamente ad arrivare gli oggetti moderni mentre nel paese ancora si viveva la vita dei nonni. Era passato il periodo più buio della guerra. Rommel era sceso dalla montagna verso Tramonti e diretto a Longarone, verso il Piave, solo per la determinazione del podestà si era evitata la distruzione ed il saccheggio delle case. Poi erano tornati gli italiani ma la persistente povertà aveva spinto molti ad emigrare verso le città o addirittura in Belgio o verso la Germania. Molti friulani come loro erano finiti già da tempo in zone anche più remote dell'Europa, come in Russia, Romania o oltreoceano. Partirono per un lavoro migliore, migranti economici li avrebbero chiamati, finirono a tagliar boschi altrove o nel buoi delle miniere. A casa arrivavano le lettere ed i soldi, quando non arrivavano telegrammi di disgrazie avvenute. Nuove sventure belliche e nuovi regimi non si erano ancora palesati.
Era allora, alla fine dell'inverno, che i paesani rimasti tornavano alle attività di ogni stagione. Su nei boschi, a ripulire i sentieri per giungere a raccogliere la propria legna per rivenderla alla pianura o per sopravvivere ai nuovi freddi, che sarebbero arrivati. Si riaprivano le stalle per portare agli alpeggi più alti il bestiame, mucche e pecore, utili per il latte la lana e le scorte di cibo. Ognuno faceva la propria parte, anche i bambini che facevano la spola tra le case e i boschi aiutando così i propri genitori. Proprio in quel tempo, con l'aria più calda e la natura rigogliosa, alcune donne partivano.
Le sedonere le chiamavano, Un semplice lungo abito nero chiuso da una cintola, un fazzoletto al collo ed un copricapo di stoffa, una pesante gerla sulla schiena che incurvava l'aspetto, A due a due, come soldati di pattuglia o come apostoli in missione. In fondo angeli custodi l'una dell'altra. Nella gerla i manufatti dell'inverno: mestoli e cucchiai (i sedòns, nella lingua clautana), forchette e tazze, portasale e portagioie, altri piccoli utensili in legno e per i più piccoli le bamboline fatte con le foglie secche del granoturco. Salivano sulle corriere Giordani, orgoglio clautano, che scendevano lungo la stretta strada scavata nella forra del torrente Cellina, lambendo con le ruote il burrone e sobbalzando nei tratti più arditi e nelle buche polverose. Attraversavano il pianoro di Barcis, quello che solo vent'anni dopo ospiterà il lago fonte di ricchezza per l'energia prodotta e ancora più tardi per le scampagnate domenicali di di un'Italia finalmente in pieno vigore. Affrontavano la larga pianura friulana verso la cittadina di Pordenone, porta per la campagna veneta e lombarda, e giù fino a Bologna. Le nostre sedonere erano le ultime stirpi di generazioni perdute nel tempo. Già allora le giovani preferivano migrazioni più stabili e opportunità migliori, nelle grandi città di Trieste, Padova, Milano. Lì si guadagnava di più, già da giovanissime, nelle case dei signori o nelle numerose filande. Con la lettera di raccomandazione del parroco o del dottore, diventavano operaie, cameriere, cuoche o crescevano bambini di altri. Le più fortunate si sarebbero riscattate, avrebbero trovato casa e marito, avrebbero potuto studiare. Altre però erano sfruttate, trattate come esseri inferiori, le montanare grezze ed incolte, potevano subire violenze di ogni genere alla mercé di padroni senza scrupoli. Le sedonere invece non avevano padroni, almeno non quando erano in viaggio, erano come uccelli in libertà, vagavano sulle nostre strade, conoscevano tutti i nostri paesi più piccoli come Bibano o Cessalto o Susegana, e le nostre cittadine Conegliano Vittorio Oderzo...e così altrettanto per tutte le zone del nord Italia.... Si muovevano tra i paesi vendendo i loro oggetti, erano esperte in trattative per tirare un ricavo vantaggioso. Stupefacente libertà per un Paese ancorato alle tradizioni del pater familiae, dell'uomo che lavorava e della donna madre e padrona della casa. Per questo erano guardate in strano modo dalla gente di campagna. Forestiere dalla lingua sconosciuta, nel loro parlarsi in clautano oscuro linguaggio per molti. Se non bastava, per non per intendersi tra loro, usavano una forma ancor più oscura, la lingua segreta delle sedonere, il dialetto del dialetto del piccolo borgo friulano. Allora sì che non c'era modo di intuire cosa si nascondesse dietro quel bisbocciare durante la vendita!
Alle volte stavano via anche mesi, finché non avevano finito la scorta di oggetti che portavano appresso. Mesi di marcia, attraverso le campagne assolate lungo strade polverose. Immerse nella vivace natura verde dei gelsi e dei prati, gialla del grano che si faceva rigoglioso e accompagnate dall'orchestra di numerosi passeri e rondini che salutavano il loro passaggio. Nel cuore una vena di tristezza, il pensiero ai propri cari lassù al paese e la nostalgia della dolce culla della valle tra i monti. Quanto era diverso quel paesaggio di sconfinata pianura, quell'accompagnarsi a gente sconosciuta, quegli occhi spesso diffidenti che incrociavano per la via! Quando potevano compravano la carta e scrivevano lettere lassù, colmando lo spazio della distanza e il tempo dell'attesa o annunciando il lieto ritorno.
Entravano nel paese annunciandosi per la via “cucchiai, mestoli, sandali” gridavano. Le massaie uscivano di casa, guardavano la merce, confabulavano un po'. Alle volte compravano qualcosa, altre le mandavano via in malo modo . Il fatto che fossero sconosciute, straniere per gente abituata a vedere gli stessi volti e le stesse occupazioni, le rendeva soggette di facili giudizi. Donne frivole ed avvezze a chissà quali piaceri, nomadi che se potevano approfittavano della situazione e delle cose disponibili, donne sbandate senza padrone di casa, donne strane dalle quali diffidare, donne pericolose per l'integrità morale del luogo. Fortunatamente non sempre era così, c'era chi le si faceva incontro, chi le interrogava sulla loro vita, chi le notava la domenica alla Messa in fondo alla chiesa, qualche baldanzoso giovanotto che corteggiava le più giovani viandanti. Sul far della sera, quando non era più tempo per commerci o per il cammino, succedeva spesso che qualcuno si offrisse di accoglierle. In quei momenti le storie delle ultime sedonere si incrociavano con le storie degli ultimi filò, le veglie familiari al tepore della stalla. Illuminati dalla fioca luce delle lampadine di quegli anni, quando gli impianti di riscaldamento non avevano raggiunto ancora tutte le abitazioni, specialmente nei paesi più rurali, nelle sere ancora umide delle campagne ci si ritrovava ancora, allo stesso modo di generazioni passate e perse nel tempo, tramandando racconti e consuetudini. Mentre sul tardi le famiglie rientravano nelle case, a loro era concesso di dormire nei fienili, accanto agli animali ed al pesante odore dei loro quotidiani affari. Succedeva che il fienile lo occupavano liberamente, in certe notti vaganti, salvo essere svegliate rumorosamente da un contadino sbraitante che le cacciava in malo modo dalla sua intoccabile proprietà. Allora voleva dire ripartire, gerla sulle spalle e ricominciare ancora il lungo viaggio.
Le gerle lentamente si svuotavano, i paesi si succedevano l'uno all'altro con i loro campanili e la loro gente, incrociando il traffico misto di carretti e delle prime auto, il sole tramontava e il sole risorgeva, il tempo scorreva e la storia mutava. Eppure nel suo mutare ogni tempo ed ogni luogo, come sempre, avrà avuto le sue sedonere, i suoi migranti tra paesi vicini e lontani, i suoi venditori ambulanti, la propria gente rinchiusa nella terra e impaurita da ciò che potrebbe arrivare, e con essa i suoi ricordi ed i suoi sognatori, i suoi esploratori e le braccia accoglienti, gli sguardi torvi ed i volti sorridenti.
Era un periodo strano quello, dalle città cominciavano lentamente ad arrivare gli oggetti moderni mentre nel paese ancora si viveva la vita dei nonni. Era passato il periodo più buio della guerra. Rommel era sceso dalla montagna verso Tramonti e diretto a Longarone, verso il Piave, solo per la determinazione del podestà si era evitata la distruzione ed il saccheggio delle case. Poi erano tornati gli italiani ma la persistente povertà aveva spinto molti ad emigrare verso le città o addirittura in Belgio o verso la Germania. Molti friulani come loro erano finiti già da tempo in zone anche più remote dell'Europa, come in Russia, Romania o oltreoceano. Partirono per un lavoro migliore, migranti economici li avrebbero chiamati, finirono a tagliar boschi altrove o nel buoi delle miniere. A casa arrivavano le lettere ed i soldi, quando non arrivavano telegrammi di disgrazie avvenute. Nuove sventure belliche e nuovi regimi non si erano ancora palesati.
Era allora, alla fine dell'inverno, che i paesani rimasti tornavano alle attività di ogni stagione. Su nei boschi, a ripulire i sentieri per giungere a raccogliere la propria legna per rivenderla alla pianura o per sopravvivere ai nuovi freddi, che sarebbero arrivati. Si riaprivano le stalle per portare agli alpeggi più alti il bestiame, mucche e pecore, utili per il latte la lana e le scorte di cibo. Ognuno faceva la propria parte, anche i bambini che facevano la spola tra le case e i boschi aiutando così i propri genitori. Proprio in quel tempo, con l'aria più calda e la natura rigogliosa, alcune donne partivano.
Le sedonere le chiamavano, Un semplice lungo abito nero chiuso da una cintola, un fazzoletto al collo ed un copricapo di stoffa, una pesante gerla sulla schiena che incurvava l'aspetto, A due a due, come soldati di pattuglia o come apostoli in missione. In fondo angeli custodi l'una dell'altra. Nella gerla i manufatti dell'inverno: mestoli e cucchiai (i sedòns, nella lingua clautana), forchette e tazze, portasale e portagioie, altri piccoli utensili in legno e per i più piccoli le bamboline fatte con le foglie secche del granoturco. Salivano sulle corriere Giordani, orgoglio clautano, che scendevano lungo la stretta strada scavata nella forra del torrente Cellina, lambendo con le ruote il burrone e sobbalzando nei tratti più arditi e nelle buche polverose. Attraversavano il pianoro di Barcis, quello che solo vent'anni dopo ospiterà il lago fonte di ricchezza per l'energia prodotta e ancora più tardi per le scampagnate domenicali di di un'Italia finalmente in pieno vigore. Affrontavano la larga pianura friulana verso la cittadina di Pordenone, porta per la campagna veneta e lombarda, e giù fino a Bologna. Le nostre sedonere erano le ultime stirpi di generazioni perdute nel tempo. Già allora le giovani preferivano migrazioni più stabili e opportunità migliori, nelle grandi città di Trieste, Padova, Milano. Lì si guadagnava di più, già da giovanissime, nelle case dei signori o nelle numerose filande. Con la lettera di raccomandazione del parroco o del dottore, diventavano operaie, cameriere, cuoche o crescevano bambini di altri. Le più fortunate si sarebbero riscattate, avrebbero trovato casa e marito, avrebbero potuto studiare. Altre però erano sfruttate, trattate come esseri inferiori, le montanare grezze ed incolte, potevano subire violenze di ogni genere alla mercé di padroni senza scrupoli. Le sedonere invece non avevano padroni, almeno non quando erano in viaggio, erano come uccelli in libertà, vagavano sulle nostre strade, conoscevano tutti i nostri paesi più piccoli come Bibano o Cessalto o Susegana, e le nostre cittadine Conegliano Vittorio Oderzo...e così altrettanto per tutte le zone del nord Italia.... Si muovevano tra i paesi vendendo i loro oggetti, erano esperte in trattative per tirare un ricavo vantaggioso. Stupefacente libertà per un Paese ancorato alle tradizioni del pater familiae, dell'uomo che lavorava e della donna madre e padrona della casa. Per questo erano guardate in strano modo dalla gente di campagna. Forestiere dalla lingua sconosciuta, nel loro parlarsi in clautano oscuro linguaggio per molti. Se non bastava, per non per intendersi tra loro, usavano una forma ancor più oscura, la lingua segreta delle sedonere, il dialetto del dialetto del piccolo borgo friulano. Allora sì che non c'era modo di intuire cosa si nascondesse dietro quel bisbocciare durante la vendita!
Alle volte stavano via anche mesi, finché non avevano finito la scorta di oggetti che portavano appresso. Mesi di marcia, attraverso le campagne assolate lungo strade polverose. Immerse nella vivace natura verde dei gelsi e dei prati, gialla del grano che si faceva rigoglioso e accompagnate dall'orchestra di numerosi passeri e rondini che salutavano il loro passaggio. Nel cuore una vena di tristezza, il pensiero ai propri cari lassù al paese e la nostalgia della dolce culla della valle tra i monti. Quanto era diverso quel paesaggio di sconfinata pianura, quell'accompagnarsi a gente sconosciuta, quegli occhi spesso diffidenti che incrociavano per la via! Quando potevano compravano la carta e scrivevano lettere lassù, colmando lo spazio della distanza e il tempo dell'attesa o annunciando il lieto ritorno.
Entravano nel paese annunciandosi per la via “cucchiai, mestoli, sandali” gridavano. Le massaie uscivano di casa, guardavano la merce, confabulavano un po'. Alle volte compravano qualcosa, altre le mandavano via in malo modo . Il fatto che fossero sconosciute, straniere per gente abituata a vedere gli stessi volti e le stesse occupazioni, le rendeva soggette di facili giudizi. Donne frivole ed avvezze a chissà quali piaceri, nomadi che se potevano approfittavano della situazione e delle cose disponibili, donne sbandate senza padrone di casa, donne strane dalle quali diffidare, donne pericolose per l'integrità morale del luogo. Fortunatamente non sempre era così, c'era chi le si faceva incontro, chi le interrogava sulla loro vita, chi le notava la domenica alla Messa in fondo alla chiesa, qualche baldanzoso giovanotto che corteggiava le più giovani viandanti. Sul far della sera, quando non era più tempo per commerci o per il cammino, succedeva spesso che qualcuno si offrisse di accoglierle. In quei momenti le storie delle ultime sedonere si incrociavano con le storie degli ultimi filò, le veglie familiari al tepore della stalla. Illuminati dalla fioca luce delle lampadine di quegli anni, quando gli impianti di riscaldamento non avevano raggiunto ancora tutte le abitazioni, specialmente nei paesi più rurali, nelle sere ancora umide delle campagne ci si ritrovava ancora, allo stesso modo di generazioni passate e perse nel tempo, tramandando racconti e consuetudini. Mentre sul tardi le famiglie rientravano nelle case, a loro era concesso di dormire nei fienili, accanto agli animali ed al pesante odore dei loro quotidiani affari. Succedeva che il fienile lo occupavano liberamente, in certe notti vaganti, salvo essere svegliate rumorosamente da un contadino sbraitante che le cacciava in malo modo dalla sua intoccabile proprietà. Allora voleva dire ripartire, gerla sulle spalle e ricominciare ancora il lungo viaggio.
Le gerle lentamente si svuotavano, i paesi si succedevano l'uno all'altro con i loro campanili e la loro gente, incrociando il traffico misto di carretti e delle prime auto, il sole tramontava e il sole risorgeva, il tempo scorreva e la storia mutava. Eppure nel suo mutare ogni tempo ed ogni luogo, come sempre, avrà avuto le sue sedonere, i suoi migranti tra paesi vicini e lontani, i suoi venditori ambulanti, la propria gente rinchiusa nella terra e impaurita da ciò che potrebbe arrivare, e con essa i suoi ricordi ed i suoi sognatori, i suoi esploratori e le braccia accoglienti, gli sguardi torvi ed i volti sorridenti.
Autore
Gianluigi Dall'Ava
Collezione
Citazione
Gianluigi Dall'Ava, “Sedonere,” Patrimonio - Museo Dolom.it, ultimo accesso il: 17 novembre 2024, https://patrimonio.museodolom.it/items/show/4781.